La pittura come memoria, esperienza, fantasia, estro.

A scorrere le pagine di Paola Dagioni si risveglia quell’emozione di paesaggio spirituale che è sempre il motivo ricorrente di chi sa fare poesia con il colore, e narrare di sé attraverso l’architettura del composto. Non altrimenti ci si deve avvicinare a questi risultati estetici che sono prima di tutto un simbolo: della natura intensamente amata, del paesaggio lietamente umbro, di un’armonia inseguita e raccolta alla maniera di un soffio dell’anima e, insieme, di una ricerca (tecnica e formale) che è in continuo progredire.
Nascono allora queste opere da leggere alla maniera di un diario geloso: perché l’ondulata collina, il colore bruciante di un campo, i cieli incombenti, la stessa geometria che scandisce, il fraseggio dei toni, le sovrapposizioni cantabili diventano una trasposizione perfetta e aderente all’intimo.
Paola Dagioni “inventa” nel senso più specifico: fa la spola continua tra la realtà e la concretezza del quadro per raggiungere un qualcosa di profondamente suo, che le appartiene totalmente.
Ed è visione esclusiva, originale e non mediata, pulsante e mai retorica. Alta, nel cielo, veleggia la nave dei sogni”.

Mimmo Coletti agosto 1996

Se “qui e ora” ha ancora un senso dipingere figure, sfidando “l’iconoclastica” contemporanea che, giustamente (dopo Auschwitz non è dato più scrivere poesia) – predilige il gesto, il corpo, il digitale, l’aniconico e così via elencando, credo che la pittura domestica, la pittura in tarsia (felici definizioni di M. Apa) di Paola Dagioni si collochi nel solco di una genuina tradizione umbra, connotata sopra tutto dal magistero e dalla lectio dottoriana, che dà credito sia al paesaggio morfologico e reale, della terra natale, sia al paesaggio “virtuale” dell’estro, del bagliore metafisico che prelude (e presiede) alle cose dell’arte. Così la pittura serena e rassicurante dell’artista perugina, intessuta di ribellione dolce al quotidiano e alla “banalità del bene”, si muove lungo direttrici di una “geometria colorata” (L.M. Reale), in texture dove gli elementi figurali sono come sospesi in sorta di soluzioni chimiche di trasparenze vagamente cubiste, e come filtrate sul telaio di scomposizioni luministiche futuriste, e dove appunto la luce non giunge da fuori, “dell’altrove” ma dell’interno dell’impasto e delle sequenze del pennello. Sicché la luce delle tele di Dagioni è autonoma, autoreferenziale, ed è la cifra, l’intimo sigillo, la denotazione della sua sintassi.
Vive di materia pittorica quanto non paratattica, le stagioni espressive di Paola Dagioni godono di come rarefatti tripudi, di timidi e familiari orizzonti, da cui si irraggiano accenti di teneracromaticità, incantata adesione alla vita, alla natura e alle albe creaturali.
La pittura onesta, sommessa, delicata, “diaristica” di Paola Dagioni, insomma è un mix equilibrato di “spirito di geometria” e di “spirito di finezza”. Non è poco oggigiorno. Anzi è molto.

Antonio Carlo Ponti
maggio 2000

La pittura di Paola Dagioni è una tarsia in pittura. Diluendo la pasta, la punta del pennello può correre lieve e felice su la superficie della tela. Può fermarsi a spalmare con calma il grumo più duro, può raccogliere in un punto le altrimenti divaricate pozzanghere di colore troppo diluito e può, anche, ripassare la pittura con altre pitture del medesimo colore, medesima tinta.
Quindi la pittura si dispone tenace e piana su una superficie a ricalcare la medesima superficie. Si tratta ovvero di avere una superficie di pittura liscia e pulita come la faccia di un marmo levigato. A quel punto si taglia il marmo e lo si mette legato con mastice ad altro pezzo di marmo: del medesimo colore o di sfumatura, tinta differente.
Nella logica compositiva di una figura – un “paesaggio” o un “volto” o una “natura morta” – la “parte” si annette al “tutto”. Così il “pezzo” del “marmo/pittura” si unisce all’altro “pezzo/pittura” in una che informa l’intero spazio fino a definire la figura cercata e affermata. In questa pittura di Dagioni non si ha un “taglio” tra “parte” e “parte”. Si ha un accostamento che provoca il luogo del taglio. Se l’artista opera per “taglio” si avrebbe un solco, un segno xilografato e dunque una valenza gestuale del segno medesimo. Invece ecco che in Dagioni la levigatezza della superficie imprime tutta la superficie e dunque anche quell’invisibile linea che “divide e unifica”- contemporaneamente – le varie parti.
E’ questa levigatezza, questo appianare dentro la superficie le altrimenti asperità di una pittura che si dà per contrasti o tonalità diversificate, a formare la qualità cromatico-formativa della pittura di Paola(...) Nel ’94 Edgardo Abbozzo scrisse, in occasione della mostra alla “Postierla, “la capacità di cogliere “altro” nella realtà sensibile (…) Paola Dagioni“ scrive Abbozzo, “astrae la realtà e la trasforma in ritmo pittorico”. Ed è questo “ritmo pittorico” che rimanda allo incastro simultaneo di ascendenza del Dottori, ammorbidito e reso domestico nell’intimismo letterario delle tematiche dalla Dagioni trattato. (per referenza di E. Abbozzo in presentazione alla Dagioni, si veda in: “11 Messaggero Ed. Umbria, 24 novembre, ’94;] (...)

Mariano Apa giugno 1998

“[…] Una geometralizzazione che mai insorge con esplosioni di toni caldi e visualizzazioni iconografiche, preoccupata com’è Paola Dagioni di evitare al suo essere pittrice di cadere in una ridondanza formale e in eccessi liricistici. Ciò non vuole dire che la pittrice non avverta ascendenze remote, ma sufficientemente assimilate, di origine dottoriana, laddove la poesia del panorama è intensa nell’accezione umbra e contenuta per evitare stucchevoli emotività che nulla hanno a che vedere con il vigore dei sentimenti.
E in questo sforzo di ricerca di una propria originalità Paola Dagioni corporeizza immagini che sembrano l’esito di una memoria che ha saputo e voluto filtrare con l’intelligenza pittorica, con un pizzico di razionalità accademica, con la squisita sensibilità femminile, una realtà figurale che suscita, in una sorta di coloristica-ibernazione-dinamica, i tagli, i toni, i timbri, le luci, le ombre, le presenze urbane e naturali, presenze e progressioni culturali che non nascondono – più di tanto – origini futuristiche . […]
E non vi sembri poco in un’epoca in cui tutti scimmiottano questo o quello e/o rincorrono gli “ismi” modali per fare dello sperimentalismo fine a se stesso e non mirato al superamento di consolidati e vieti luoghi comuni.
E’ un peccato pittorico che non affligge il quadro di Paola Dagioni che persegue con tenacia volitiva e con umiltà sensibile un progetto pittorico perfettibile, consapevole che solo l’arte può disvelare bellezza e parziali verità all’uomo che ricerca da sempre: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo”.

Giovanni Zavarella dicembre 1996

“[…] Paola Dagioni dolce signora, è una brava e sensibile interprete del paesaggio umbro. Riesce a fondere la sapienza del passato con
il presente creando quadri personali e piacevoli. […]”

Franco Venanti giugno 1998

“[…] Una insolita partecipazione visiva anima la sua rappresentazione: sulla linea di certe moderne espressioni pittoriche, essa si inoltra entro aspetti paesaggistici raccolti nell’ambito di particolari ondulazioni, (forse una disponibilità, una intenzionalità suggestive) che trascendono il convenzionale, l’usuale, per offrirsi invece come stato d’animo, arcana atmosfera che raccolgono la presenza naturalistica entro una estrema sintesi espressiva, fatta di soli suggerimenti e indicazioni. L’artista non sceglie l’evidenza oggettiva delle cose e dei fatti, ma ne estrae la sensazione, l’emozione, per riproporne impressioni che ci avvincono e ci accomunano in un colloquio in cui tutti ci ritroviamo, con le nostre partecipazioni umane e ideali, con i nostri entusiasmi e le nostre delusioni.
Realtà e sogno, memoria e presenza assumono allora una indicazione che trascende il reale e si fa intuizione, espressa mediante certi toni coloristici, certe evocazioni luminose e certi rapporti geometrici, indubbiamente frutto di una invenzione soggettiva, di una emozione mitica. […]”

Armando Biselli
agosto 1997